Psicologa Clinica e dello Sviluppo - Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale

Mese: Dicembre 2015

Nel lettone con mamma e papà

Nei primi mesi di vita del bambino i genitori farebbero qualsiasi cosa pur di farlo smettere di piangere. Spesso, a meno di non avere a che fare con un piccolo Attila, la soluzione per calmarlo è portarlo a dormire nel lettone. Per anni pediatri e psicologi hanno sconsigliato ai genitori il “co-sleeping”, convinti che questa abitudine danneggiasse l’intesa sessuale della coppia e l’educazione dei figli. Eppure molti bambini, fino alla metà del secolo scorso, hanno dormito con mamma e papà, spesso per motivi economici. L’usanza, secondo due studi del 2006, appartiene al 93% dei bambini fra i tre e i 10 anni, per ragioni unicamente affettive.

Oggi una ricerca della Stony Brook University di New York, pubblicato su Pediatrics, riabilita quest’usanza così dura a morire, sostenendo che abituare i bambini a dormire tra le lenzuola che odorano di mamma e papà non comporti per loro alcun effetto collaterale. “Madri dello stesso livello sociale educano i bambini esattamente nello stesso modo – spiega la coordinatrice della ricerca Lauren Hale – indipendentemente dal fatto di farli dormire con sé o no”.

Lo studio ha preso in esame 944 coppie non abbienti con un figlio di un anno, monitorandone nel lungo periodo la situazione psicologica e le abitudini legate al sonno. Dai dati è emerso che i bambini che avevano dormito nel lettone avevano raggiunto lo stesso livello di sviluppo comportamentale e cognitivo di quelli che avevano sempre dormito da soli. L’Associazione americana di pediatria si è sempre schierata contro il “co-sleeping” nei primi mesi di vita spiegando che quest’abitudine aumenta il rischio di sindrome della morte improvvisa del lattante, che colpisce nel primo anno di vita ed è tutt’ora la prima causa di morte tra i piccoli nati sani, ma la Hale precisa che “la scoperta non è in contrasto con queste raccomandazioni, perché lo studio si è concentrato su bambini che avevano già compiuto un anno”.

Ci sono tuttavia pro e contro legati al bed-sharing. Secondo alcuni pediatri favorisce l’allattamento al seno e migliora il rapporti tra madre e figlio, secondo altri stressa i genitori e stravolge le abitudini del bambino, facendolo sentire a disagio quando è costretto a dormire da solo. “Attraverso il lettone – spiega lo psicologo Maurizio Brasini – scorrono i momenti cruciali del ciclo vitale di una famiglia. Prima sarà il talamo di due amanti, poi un pancione occuperà una parte dello spazio comune, e poi ancora si trasformerà in nido. Il letto è uno spazio importantissimo ma è sempre e comunque solo un letto. L’importante, come al solito, è l’equilibrio che si instaura all’interno della famiglia”.

Già qualche anno fa Margot Sunderland, direttrice del Center for Child Mental Health di Londra, consigliò ai genitori di respingere l’opinione dominante e permettere ai bambini di dormire nel lettone sino ai cinque anni, affermando come questa abitudine renda più probabile che diventino degli adulti calmi, sani ed emotivamente equilibrati. Autrice di una ventina di libri sulla psicologia dell’infanzia, la Sunderland presentò la sua teoria nel saggio “The Science of Parenting” (“La scienza di fare i genitori”), basato sulle conclusioni di 800 studi scientifici. Secondo la psicologa, abituare i bambini a dormire da soli già a poche settimane di vita (uso comune ad esempio negli Stati Uniti, dove solo il 15% dei bambini può addormentarsi con mamma e papà, la percentuale più bassa del mondo) è anzi dannoso, perché la separazione dai genitori aumenta il flusso di ormoni dello stress, come l’idrocortisone.

Fonte:

http://www.repubblica.it/salute

La musicoterapia combatte la depressione

Aiuta a esprimere le proprie emozioni, anche quando farlo a parole è difficile: è questo il motivo per cui la musica aiuta a combattere la depressione. Ad affermarlo, in uno studio pubblicato sul British Journal of Psychiatry, sono i ricercatori dell’Università di Jyväskylä (Finlandia), coordinati da Jaakko Erkkilä.

La ricerca è stata condotta su 79 soggetti affetti da depressione di età compresa tra i 18 e i 50 anni, 33 dei quali hanno seguito, oltre alle terapie standard – antidepressivi, psicoterapia e psicanalisi – anche 20 sedute di musicoterapia durante le quali hanno imparato a suonare uno strumento (come il tamburo o lo xilofono). Dopo tre mesi gli esperti hanno rilevato che i partecipanti che erano stati curati anche con le sessioni musicali mostravano meno sintomi di depressione e ansia e che, inoltre, questi effetti benefici erano visibili anche a distanza di sei mesi.

I risultati, spiegano gli studiosi, sono dovuti al fatto che la musica aiuta i pazienti a esprimere le proprie emozioni e a interagire in modo “non verbale”, aiutandoli a descrivere le loro esperienze interiori anche quando non riescono a trovare le parole per farlo. «Abbiamo scoperto che attraverso la musica le persone spesso riescono a esprimere i propri sentimenti – spiega Erkkilä -. Alcuni pazienti hanno descritto questa esperienza come un ‘gioco catartico’»

Fonte:

http://salute24.ilsole24ore.com

Lo stress che si vede sulla pelle

Più della metà della popolazione soffre, o ha sofferto, di un problema che riguarda la pelle e il 18-27% ha avuto bisogno di cure mediche: in Italia, le malattie della cute, specie quelle infiammatorie, sono in continuo aumento e nel loro esordio, o aggravamento, è spesso implicato lo stress. Uno stress che si può “misurare”. Neurofisiologi del Cousin Center per la psiconeuroimmunologia dell’Università della California, dopo aver sottoposto un gruppo di volontari a un esperimento che prevedeva l’induzione di una particolare forma di stress (quello da “esclusione”, ovvero da rifiuto sociale), hanno visto che solo in una minoranza di volontari alcune aree del cervello risultavano iperattive e aumentava la risposta infiammatoria (misurabile attraverso diversi parametri come la produzione di citochine, potenti messaggeri chimici del sistema immunitario). È la conferma che esistono effettivamente persone più sensibili di altre allo stress che “pagano” la propria ipersensibilità con una reazione eccessiva, spesso proprio a livello della pelle.

FOGLIETTO EMBRIONALE – «Tra il cervello e la pelle – spiega Marcello Monti, docente di dermatologia dell’Università degli Studi di Milano – esiste una specie di corsia preferenziale perché entrambi originano dalla medesima porzione – più propriamente lo stesso “foglietto” – embrionale. Come dermatologi, vediamo gli effetti di questo collegamento ogni giorno. Basti pensare alla psoriasi, una delle più diffuse malattie della pelle: più di metà delle persone con questa patologia ricordano di aver vissuto esperienze stressanti prima della comparsa o dell’aggravamento della malattia». «La medicina non è in grado di dirci perché alcuni reagiscono allo stress con manifestazioni fisiche evidenti, cioè somatizzano, e altri no – aggiunge Monti -. E neppure sa dirci perché queste manifestazioni siano così diverse da persona a persona: c’è chi reagisce con extrasistole, chi con attacchi di emicrania, chi con una gastrite. Ognuno di noi ha uno o più punti deboli. Ma la pelle è senza dubbio uno dei bersagli più comuni dello stress». Quando siamo “sotto pressione” il nostro cervello interpreta gli stimoli stressanti e regola la risposta difensiva dell’organismo. Dal canto suo, l’epidermide (un vero e proprio organo, come i polmoni o i reni) è il capolinea di innumerevoli terminazioni nervose.

DERMATITI INFIAMMATORIE – Quando lo stress ci colpisce si innesca una catena di eventi che, partendo dall’ipotalamo (il nucleo più antico del cervello) e passando per l’ipofisi, provoca numerose alterazioni ormonali e una risposta infiammatoria, più o meno intensa, a livello cutaneo. Le dermatiti infiammatorie con radici nella psiche sono davvero tante. Oltre alla psoriasi c’è la dermatite atopica, l’Herpes labiale, l’orticaria, il dermografismo e l’alopecia areata che è un vero e proprio modello di disturbo cutaneo da stress, motivo di circa il 2% dei consulti dermatologici: il bulbo capillifero è sano, eppure il capello cade, inesorabilmente. «Quando si ha un’improvvisa caduta dei capelli come nell’alopecia areata – chiarisce Marcello Monti – è proprio come se si accendesse una spia d’allarme che impone di “fermarsi” a riflettere sui propri ritmi di vita. Ma in generale, con tutti i disturbi alla pelle dobbiamo “rallentare” e chiederci se non stiamo sopportando uno sforzo psichico eccessivo. Dopo aver preso consapevolezza del fatto che una guarigione completa, senza ricadute, sarà improbabile finché saremo sottoposti a uno stress eccessivo, e che pomate e rimedi vari da soli non saranno risolutivi, arriva la parte più difficile: cercare di cambiare qualcosa nella nostra vita, adottando strategie per controllare meglio la fatica psichica, magari introducendo qualche sana valvola di sfogo».

Fonte:

http://www.corriere.it

Perché la pubblicità funziona?

Gli spot che puntano sulla bellezza degli attori, piuttosto che sulle qualità del prodotto, sono efficaci perché “aggirano” le aree razionali del cervello. Ad affermarlo, in uno studio pubblicato sul Journal of Neuroscience, Psychology, and Economics, sono i ricercatori dell’Università della California di Los Angeles (Usa), coordinati da Ian Cook, secondo cui i messaggi pubblicitari che esercitano una “influenza non razionale” – che punta a suscitare, nel consumatore, stimoli inconsci – “funzionano” perché evitano di stimolare le zone del cervello che inibiscono le risposte agli stimoli.

Nel corso dello studio, gli esperti hanno monitorato – tramite elettroencefalografia – l’attività cerebrale di 24 soggetti, ai quali hanno chiesto di osservare 24 annunci pubblicitari su riviste e quotidiani basati sulla strategia “non razionale” o sulla “persuasione logica”, quella che esalta le caratteristiche del prodotto piuttosto che gli aspetti emozionali. Al termine, è emerso che i livelli di attivazione delle aree del cervello coinvolte nel processo decisionale (corteccia orbitofrontale, cingolo anteriore, amigdala e ippocampo) risultavano alti in risposta ai messaggi “logici” e bassi di fronte agli altri.

“I risultati dimostrano che i bassi livelli di attività cerebrale generati dagli annunci ‘non razionali’ – spiega Cook – potrebbero tradursi in una minore moderazione nel momento dell’acquisto”.

Fonte:

http://salute24.ilsole24ore.com

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén